Bruno Tamiozzo è un fotografo italiano. Si occupa di reportage e lo fa con straordinario talento. Interessato al suo lavoro in giro per il mondo – tra Africa e India – e alla sua genuina curiosità ho deciso di intervistarlo.

“Quel che rende grande o importante un’opera è ciò che si nasconde dietro, dentro colui che l’ha creata, modellata, e resa fruibile al mondo intero”

La tua ricerca ti porta spesso fuori dall’Italia. Come affronti la partenza in relazione al reportage che ti preponi di realizzare? E’ più importante tracciare prima un percorso fotografico oppure ti affidi alle persone del posto – una volta arrivato – per capire che storie potresti raccontare?

Prima di partire di solito mi informo sui possibili lavori da poter realizzare. Cerco – tramite Internet –  informazioni riguardanti la popolazione, la storia e quanto altro ancora possa perlomeno schiarirmi le idee su quel che troverò. Passata questa fase cerco contatti direttamente nel posto in cui andrò a lavorare. Preferisco di gran lunga trovarmi direttamente sul luogo e comprendere le situazioni per realizzare ogni mio lavoro, solo in questo modo posso sentire e vivere la situazione, renderla in breve tempo – per quanto difficile – mia.

Quello che più mi ha catturato del tuo modo di intendere la fotografia è l’intensità nel movimento dei tuoi soggetti. Un uso sapiente dei tempi lunghi che rende pienamente il peso delle circostanze che vivi. Quanto la ritieni questa una parte fondamentale nell’espressione del tuo reportage?

Non ho mai dato troppo peso a questa caratteristica della mia fotografia… nel senso che non l’ho mai studiata. L’utilizzo del mosso in alcuni scatti mi rende partecipe della scena in quel determinato momento, come le figure che appariranno nel fotogramma. Di quell’attimo di vita che, spesso, dura solamente pochissimi secondi, ma che si trasforma – come per magia – in un tempo lunghissimo.

Dalle tue parole si evince una totale dedizione alle emozioni. Quanto conta la tecnica fotografica nel lavoro del reporter?

Non ho mai studiato o fatto corsi di fotografia per imparare la tecnica. L’unico studio che mi ha portato a comprendere la “realtà” del mondo del fotogiornalismo è stato un master di 6 mesi che ha dato alla mia mente la voglia di continuare su questa strada. Ritengo che, come per ogni cosa pratica, la conoscenza degli strumenti sia fondamentale, ma non del tutto indispensabile. Nel campo dell’arte imparare tecniche, conoscere sistemi di creazione, materiali ed altro è doveroso per poter utilizzare al meglio quel qualcosa che ci aiuterà ad esprimere un’idea. Il mezzo è solamente un “mezzo”. Quel che rende grande o importante un’opera – che possa essere pittorica, scultorea, fotografica e molto altro ancora – è ciò che si nasconde dietro, dentro colui che l’ha creata, modellata, e resa fruibile al mondo intero.

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Mi ha colpito moltissimo la fotografia dei bambini che giocano scivolando sul pavimento nella serie Mother & Child. E anche lo scatto alle bambine in controluce che danzano tra i letti a castello. Com’è andata? Hai cercato il contatto o hai seguito le circostanze?

La mia infanzia ha avuto un percorso del tutto simile a quello dei bambini incontrati in India nella fondazione di Mother & Child. Provengo come loro da una situazione di vita particolare. L’orfanotrofio è stato anche per me una casa per diversi anni e questo mi ha – in parte – reso ciò che sono oggi. Vivere la mia vita, seppur per brevi spazi di tempo, con questi bambini è qualcosa di molto importante. Si torna a giocare, ballare, ridere, ma anche – ogni tanto – a qualche momento di malinconia che, per forza di cose, torna a farsi vivo dentro, nel profondo.

I due scatti di cui parli sono nati per caso, mentre giocavo con questi piccoli fratelli e sorelle, trasformandomi in quei momenti, in un piccolo di 7/8 anni. L’immagine dei bambini che scivolano sul pavimento umido del bagno dell’orfanotrofio è nata perché loro giocavano, prima che arrivasse una delle donne per aiutarli a lavarsi, scivolando appunto su questo pavimento. Io non ho esitato e mi sono “tuffato” con loro, ma nello scivolare sono finito dritto con la testa contro il muro… questo ha reso la scena ancora più divertente, ma poi i bambini, visto l’accaduto, hanno deciso di cambiar la loro direzione, scivolando, non più verso il muro, ma verso di me. Così nasce quello scatto in cui sorridono e scivolano verso di me. Per le bambine nella camera si è trattato di una scena simile. Erano in camera che parlavano del più e del meno, sedute sui letti, ma non appena sono entrato, hanno iniziato a ballare… e io con loro, senza musica, solo agitando le mani in aria e saltando. Anche lì lo scatto è nato per caso, senza dar troppo peso alla tecnica o alla visione dell’insieme…. ho solo premuto il pulsante di scatto.

Meraviglioso! Ben poco peso ha la tecnica quando ci si ritrova coinvolto in scene come questa…

Non esiste più la tecnica….. esisti solo tu, le tue emozioni e la vita.

Quali sono le principali difficoltà nel comunicare con persone di un’altra cultura o che parlano un’altra lingua?

Esiste un linguaggio universale fatto di rispetto reciproco, amore e cordialità. Bastano questi tre elementi per far sì che ovunque tu sia, in qualsiasi zona del mondo, la tua lingua non sia più un ostacolo. Il vero ostacolo è il nostro animo ed il nostro cuore, se non lo apriamo prima di tutto a noi stessi. Le culture possono essere comprese semplicemente rimanendo in contatto con le persone, vivendo con loro, mangiando con loro, interagendo con ognuno, nel migliore dei modi e dando loro la possibilità di renderti partecipe della loro vita e quotidianità.

Ho viaggiato per 4 anni in India a bordo della mia moto, senza un navigatore satellitare, senza una mappa, senza sapere quale strada prendere per “vivere” il viaggio. Ci sono stati momenti belli e situazioni anche meno piacevoli, ma entrambe hanno fatto nascere molte delle mie immagini. Nel viaggiare ho conosciuto persone appartenenti a caste di tutti i tipi: da ricchi ed industriali, militari, fino ai così detti “intoccabili”. Persone lasciate ai margini della società ed a cui nulla è dovuto. Con ognuno di questi ho instaurato un rapporto, parlando una lingua con i “ricchi” e senza parlarne nessuna con i “poveri”, ma in ognuna di queste circostanze ho sempre trovato un confronto umano con i gesti, invitando le persone a bere o mangiare qualcosa che avevo con me, dividendo con questi dei biscotti o altro. Ho regalato pacchi interi di caramelle negli slum nello stato dell’Odisha, senza scattare una sola fotografia, ma solo per il desiderio di far sorridere questi bambini. Ho regalato le mie t-shirt a ragazzi più grandi che avevano una maglia strappata o consumata per l’estremo utilizzo…. ora, non voglio esser considerato un San Francesco o un missionario, ma dico ciò per farti capire che, nonostante la mancanza di cultura o di conoscenza di una lingua straniera, la vita può aiutarti a comprendere situazioni e persone solo attraverso la sensibilità, l’altruismo e la voglia di ascoltare con l’animo.

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Penso che in tanti vorrebbero prendere e partire per un reportage. Immergersi in un’altra cultura, saperla raccontare. Molti magari si fermano al sol pensiero di quanti soldi potrebbero volerci per farlo… altri non trovano neppure il coraggio per andare oltre la mappa geografica.

Se avessi dovuto pensare a quanti soldi fare con le mie fotografie adesso non sarei qui a raccontarti tutto questo. Il mondo della fotografia è un mondo molto difficile, soprattutto oggi con l’avvento del digitale e la mancanza di interesse verso il “sociale”. Vendere è molto complicato, se non impossibile.

Quali sono le principali spese quando affronti uno dei tuoi viaggi? 

La spesa più grande è sempre quella del biglietto aereo, per il resto i miei viaggi sono molto economici. Mi adatto molto alle situazioni, dormo dove capita, anche a terra vicino la moto se serve, mangio ciò che trovo, senza farmi troppi problemi, spesso sono invitato a mangiare e dormire a casa di sconosciuti che poi risultano in realtà esser molto più “familiari” di quel che si pensa. Naturalmente tutto questo se mi trovo in paesi considerati “terzo mondo” perché in occidente la cosa è ben diversa. E’ più difficile farsi ospitare o mangiare a casa di qualcuno che “non si conosce” e c’è sempre una certa paura verso gli sconosciuti.

Mi sembra di capire che il reportage non è adatto a chi ama le comodità.

Decisamente no!

Il tuo lavoro si sofferma spesso sui lavori pesanti svolti da uomini e donne. Cosa ti è sembrato accomunare le realtà che hai fotografato? 

Le cose che mi colpiscono veramente in queste circostanze non sono troppo legate alla fatica o allo sforzo fisico, quanto alle persone che vivono certe realtà. Trovarsi in una discarica elettronica, la più grande ed inquinata al mondo – quella del Ghana – è un qualcosa che non puoi descrivere… come non puoi descrivere la sensazione che provi nel vedere un bambino che gioca in mezzo ad un vasto terreno fatto di scarti elettronici. L’attività fisica, per così dire, quella che mettono in atto uomini o donne che lavorano – o meglio ancora, vengono sfruttati – in queste circostanze non è la cosa che ti lascia pensare… perchè puoi paragonarla a quella di un muratore o manovale nostrano.

Quel che più rimane è la realtà che si respira. La distruzione dell’essere umano, cosa che invece non ho respirato in India nelle fabbriche di mattoni: luoghi in cui arrivano intere famiglie da stati anche lontani per il semplice fatto di lavorare. Per dare un sostegno ai propri figli o familiari. In questo caso vedere donne, uomini che lavorano non crea un particolare fastidio o emozione perchè si tratta di un lavoro normalissimo, seppur spesso sconosciuto dalle nostre parti. Quel che può colpire in qualche modo – invece – è vedere che tra il datore di lavoro ed i lavoratori ci sia, seppur leggero, un rapporto più umano. C’è rispetto. Queste sono le vere cose che mi colpiscono.

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Il tuo lavoro in Ghana, Agbogbloshie, mi colpisce particolarmente. Come sei riuscito ad entrare in contatto con una realtà come quella di una discarica del terzo mondo?

E’ stata molto dura. Quell’anno ero imbarcato con il 30° gruppo navale della Marina Militare Italiana per il periplo della Penisola Arabica, Africa e Madagascar. 5 mesi tra navigazione e sosta con interventi umanitari e sostegno alle Marine degli Stati incontrati. Insieme ad un amico giornalista abbiamo deciso di cercare qualcosa di interessante da documentare e – prima di sbarcare in Ghana – ad Accra, ci siamo informati su cosa si potesse scrivere e realizzare un lavoro fotografico. Così parlando con fotografi e giornalisti locali capimmo di questa realtà. Uno di loro – essendo del posto – ci accompagnò all’entrata di questa discarica e ci mise in contatto con il “boss”. Dopo aver pagato per entrare in questa “Sodoma e Gomorra” ed esser scortati da tre persone, siamo riusciti, seppur in un tempo veramente breve, a realizzare questa piccola storia… una realtà straziante e devastante a livello umano e sociale.

Pagare per entrare in una discarica da documentare con delle fotografie. Quel che si dice corruzione ai massimi livelli.

Estrema.

Non ti nego che alcuni degli scatti realizzati in India mi abbiano inevitabilmente riportato al lavoro di Steve McCurry… anche se – a parer mio – ultimamente se ne parla un po’ troppo… soprattutto da quando si è improvvisato fotografo pubblicitario. Che idea ti sei fatto? E’ un professionista da cui poter prendere ancora ispirazione?

Non conosco Steve McCurry di persona, ma certamente lo apprezzo come fotografo e documentatore. Ritengo che il lavoro più bello ed importante di Steve rimanga quello realizzato in zone di guerra. Non disprezzo comunque alcuni tra i suoi ritratti realizzati in giro per il mondo, ma probabilmente anche lui ha fatto delle scelte errate nel suo percorso. Personalmente non le conosco e non mi permetto di criticarlo, ma posso dire che – volente o nolente – Steve McCurry ha lasciato qualcosa in me, probabilmente legato al discorso dell’India.

Comunque non sono molto legato a lui come “esempio” da cui prendere ispirazione. Penso che la vera ispirazione debba nascere dentro noi stessi e che dobbiamo essere capaci di dimostrare idee e caratteristiche, senza lasciarci troppo influenzare da grandi Maestri, per quanto questi siano in un qualche modo, per forza di cose, entrati nel nostro animo, attraverso libri, pubblicazioni ed articoli vari.

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Sono assolutamente d’accordo con te! L’ispirazione è utile, ma fino ad un certo punto. Bisogna pur sempre dar spazio alle proprie idee. Tu hai avuto modo di seguire diversi workshop, anche con fotografi noti come Letizia Battaglia, Francesco Zizola e Paolo Pellegrin. Non tutti riescono a capire l’importanza di un workshop… cos’è che più ti ha colpito nel confronto con questi professionisti?

Anche qui mi lego al discorso “umano”. Sarò sincero, non amo partecipare a workshop, letture portfolio, etc. perchè in un qualche modo influenzano le idee. E questa non è una cosa del tutto positiva. Non ti rende completamente libero di scegliere perchè in un qualche modo rimani vincolato a dei concetti, delle visioni fatte da terzi che nessuno al mondo può dirci se giuste o meno per noi. Nei workshop che ho frequentato quello che ho voluto percepire è stato solamente il discorso “umano” del fotografo che descriveva il proprio lavoro… non mi interessava vedere o capire come avesse realizzato i propri lavori, ma capire ed entrare in quel che era il suo animo, comprendere lui come persona, come essere umano con delle caratteristiche, delle esigenze e delle problematiche. Ognuno può realizzare fotografie, ma quel che conta veramente è ciò che c’è dietro quella fotografia… perchè in fondo, ogni immagine – volenti o nolenti – parla di noi attraverso la visione che abbiamo del mondo.

Quindi al contrario di ciò che pensavo addirittura sconsigli i workshop perché potrebbero influenzare il proprio modo di vedere.

No, non potrei mai, al contrario. Consiglio di seguire i workshop per entrare nella vera idea di fotografia o di concepire la fotografia attraverso lo sguardo di un essere umano che ha scelto quel percorso per comunicare con il mondo. Quello che sconsiglio è di seguire un workshop con la convinzione di poter apprendere tecnica, capacità fotografica o per capire come realizzare un lavoro copiando quello di un altro che ha già raggiunto il “successo”.

Ottima riflessione!

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L’editoria italiana è in crisi e i fotografi realizzano (e vendono) sempre meno reportage. Tu stesso hai poc’anzi citato la difficoltà che si ha nel vendere qualcosa. Tu hai anni di esperienza alle spalle, ma nuove leve continuano a provarci… magari rischiando la vita inseguendo un sogno, sperando che spingendosi più lontano possano avere più possibilità. Qual è il motivo che – nonostante tutto – spinge un osservatore come te a realizzare ancora degli straordinari lavori?

Non ho poi così tanti anni alle spalle di esperienza, anche se parlo di fotografia come un vecchio fotografo oramai alla pensione. Ho fatto certamente un percorso e lo sto facendo ancora… è molto difficile rispondere alla tua domanda perchè entrano in gioco diversi fattori: la propria storia, la preparazione culturale, gli eventi che hanno cambiato il tuo modo di vedere e pensare la vita ed il mondo. Questo e molto altro porta il fotografo a concepire e realizzare la propria opera, giorno dopo giorno, migliorandola ogni minuto che passa, descrivendola sempre più minuziosamente fino al raggiungimento di un qualcosa di quasi perfetto per come lo si era immaginato. Quello che mi spinge a continuare un percorso su un sentiero tanto ripido è la consapevolezza di ciò che voglio, di comprendere e di sapere con estrema convinzione che quel che sto facendo porterà ad un qualcosa… e che non per forza di cose potrà essere ricchezza economica o notorietà, ma un qualcosa di molto più grande.

Un caro amico e professore di fotogiornalismo un giorno, mentre parlavamo di fotografia e di vita, mi lesse un piccolo stralcio di poesia di Costantino Kavafis, Itaca. Voglio riportarlo a te così che possa capire il mio pensiero verso la fotografia e la vita: “Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti?”

Caro Bruno, mi ritengo fortunato ad averti conosciuto per il modo in cui intendi il reportage. Troppo spesso la vita – influenzata dalla società in cui ci troviamo – ci porta a vivere le nostre passioni in modo distorto. Al contrario, ritengo che tu sia riuscito a trovare un raro equilibrio nel modo di intendere la fotografia. Non necessariamente un business, ma anche e soprattutto una necessità dettata dal cuore. Grazie!

Grazie mille a te per questa chiacchierata.

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